FRAMMENTI DIVINI DI UN VIAGGIO IN INFERNO
Con: Mario Barzaghi
Regia: Alberto Grilli
Disegno luci: Marcello D'agostino
I primi otto canti vengono smontati e ricomposti. Due i personaggi: Dante e Virgilio che lo incalza inesorabilmente:“ L’anima tua è da viltade offesa“. Il taglio dei due versi precedenti, ( 43-44 – Canto 2° ), esalta l’autorevolezza del Maestro che spinge l’allievo a intraprendere il viaggio. I dialoghi: “ all’osso “, l’assenza dei personaggi: “ storici “, isolano e ingigantiscono la figura di Virgilio. Il succedersi delle “ visioni “, le situazioni di gruppo, fanno di questo spettacolo un dantesco “ solitario “ teatrale. Ai due personaggi, al Vian-Dante e a Virgilio, va aggiunto il protagonista, il quale utilizzando un linguaggio molto quotidiano, che fa da contrappunto ai versi danteschi, ci spiega perché è stato rinchiuso, ci fa capire, attraverso la forza epica e titanica delle sue azioni, il perché del suo bisogno barbaro, di recitare Dante.
Un attore, solo, emerge dal buio dello spazio teatrale: si sta accingendo ad affrontare un viaggio arduo, doloroso, titanico, senza appigli né aiuto; un’avventura scandita dalla potenza evocativa e visionaria dei primi otto canti dell’Inferno dantesco.
Si avverte come un leggero fremito e un’energia trattenuta e consapevole della difficoltà dell’impresa dietro la staticità del corpo e il tono pacato della sua voce narrante. Con autenticità si racconta al pubblico la storia di un uomo che cerca in solitudine, di un viandante che si mette alla prova attraversando luoghi bui e paurosi: una storia così simile a quella tormentata del grande Antonin Artaud, ma anche, per certi aspetti, a quella personale dello stesso attore.
Mario Barzaghi, dopo un lunghissimo sodalizio con il Teatro Tascabile di Bergamo, ha iniziato da alcuni anni un suo percorso artistico autonomo, che l'ha portato a collaborare con varie realtà italiane e straniere e a confrontarsi con generi teatrali talvolta diversi rispetto alla sua formazione originaria.
“Frammenti divini” è appunto il frutto di una contaminazione riuscita con l’esperienza accumulata durante il lungo apprendistato presso alcuni tra i principali maestri del teatro contemporaneo occidentale e orientale. Il nucleo dello spettacolo è nato da esperienze e materiali elaborati nel periodo svizzero presso l’”Atelier de Travail Théatral Arsenic” di Losanna.
Mario Barzaghi affronta i primi otto canti dell'Inferno dantesco, smontati e ricomposti alla luce di una rilettura che accosta la figura del poeta, ridotto a nudo personaggio solitario, che ricerca dolorosamente la “sua” strada in un luogo “d’ogne luce muto”, alle allucinate visioni di Artaud. In questo rigoroso processo di distillazione non ci sono più Virgilio, né i personaggi "storici" che Dante incontra nel suo cammino. Emerge invece, in tutta la sua statura e senza compromessi, la figura dell’uomo pronto ad affrontare le tappe dolorose di questo viaggio iniziatico.
Il problema che si pone Mario Barzaghi è come rendere visibile tale viaggio dopo questo lavoro di sottrazione, come trovare la forza interiore di sostenere i convulsi cambiamenti di tempo, di spazio che rischiano di travolgerlo, “come se il montaggio avesse una sua crudeltà che scardina la persona che mostra, in una sorte di confessione estrema, tutto se stesso”.
L’attore/autore non si è sottratto ad un difficile compito di indagine anche interiore, né ha trovato semplicistiche risposte ridotte ad un naturalismo descrittivo di facile effetto. Ha voluto piuttosto intrecciare e fare reagire tra loro in una tensione drammatica due differenti livelli culturali apparentemente antitetici, due tradizioni ricche di significato e di simbologia: quella dell’opera dantesca, vero archetipo della nostra lingua e dell’intera cultura occidentale, e quella della tradizione classica indiana, costituita dalla danza kathakali.
La secolare sapienza scenica di questa forma d’arte, così ricca di espressività corporea e gestuale rigidamente formalizzata in ogni dettaglio, capace di rendere “visibile” la poesia, amplifica la potenza espressiva ed evocativa del testo dantesco e si individua in filigrana nella svolgersi delle varie sequenze. I personaggi che appaiono agli occhi dello spettatore, Caronte, i mille diavoli, o il dannato che si dibatte nella palude infernale, vanno colti ed apprezzati anche nella loro fisicità diretta, nelle posture, nella mimica facciale, nei movimenti precisi degli occhi, delle dita, delle braccia, nella segmentazione, nell’energia modulata dall’attore secondo lo stile kathakali.
La ricchezza espressiva del corpo si integra con l’uso non convenzionale della voce, eco della tradizione del teatro di ricerca, e con la rottura della sintassi. I “Frammenti divini” diventano così palestra per spingere il confronto col testo dantesco in territori di frontiera, dove i cambi di tonalità, le assonanze/dissonanze, il timbro, il ritmo, il colore e l’intimo respiro di ogni verso evocano atmosfere e si fanno esse stesse movimento vitale, veicolo emblematico di un lavoro d’attore costruito pazientemente giorno dopo giorno.
Lo spettacolo di Mario Barzaghi diventa così il paradigma di una tradizione, quella del cosiddetto “Terzo teatro”, ridiscussa e reinventata con coraggio e amore profondo, che emerge in vari momenti sotto forma di simboli e soluzioni sceniche che pongono al centro dell’attenzione e dell’evento teatrale l’attore che riempie di sé lo spazio scenico.
(E. Colombo)
Interpretare l’inferno (Osip Mandel Stam)
“Leggere Dante è prima di tutto un lavoro interminabile. La “Commedia” non tanto sottrae tempo al lettore, quanto piuttosto gliene fa dono al pari di una composizioni musicale, mentre viene eseguita. Dante è un provetto forgiatore di strumenti poetici, e non un confezionatore d’ immagini.
È uno stratega delle trasformazioni e degli incroci.
Occorre mostrare assolutamente alcuni pezzi dei ritmi danteschi. È una cosa di cui non si ha idea e che invece bisogna conoscere. Se ascoltassimo Dante, ci immergeremmo nel flusso energetico ora denominato composizione, quando è preso nel suo insieme; ora metafora quando lo si considera in suo particolare; ora similitudine quando è colto nella sua elusività.
Immaginare il poema dantesco sotto forma di narrazione o, addirittura, di una voce che si stende su un’unica linea, è un modo assolutamente sbagliato di figurarselo.
Molto tempo prima di Bach, e in un’età in cui non si costruivano ancora i grandi organi, Dante costruì, dentro lo spazio verbale, un organo di una potenza smisurata.
I versi di Dante hanno preso forma e odore in base ad un processo geologico.
Ogni parola è un fascio di significati, ed un significato affiora da esso per irradiarsi in varie direzioni, senza mai convergere in un solo punto ufficiale. I canti danteschi sono le partiture di una speciale orchestra.
Dante ha studiato accuratamente tutti i difetti dell’eloquio, ha prestato orecchio ai balbuzienti, ai biascicanti, a quelli che parlano nel nasco e a quello che non pronuncia alcune lettere, e da essi ha appreso molto.
È magnifica in Dante la riflessologia del discorso, questa scienza ancora tutta da inventare che ha per oggetto l’azione psico-fisiologica spontanea della parola negli interlocutori, sulle persone che hanno intorno ed anche su colui che parla, come pure sui mezzi che egli usa per trasmettere lo slancio, di cui investe l’altro nel parlare, e cioè per far conoscere con un segnale luminoso il repentino desiderio di esprimersi.
A Dante nessuno ancora si è avvicinato con il martello del geologo, per conoscere la formazione cristallina delle sue molecole, per studiarne le venature, l’opacità, la granulosità, per apprezzarla come un cristallo di roccia sottoporlo alle più variopinte casualità. Una materia poetica, che si lascia attingere soltanto attraverso l’atto dell’esecuzione, esiste nell’atto di venire eseguita, nello slancio dell’ esecuzione.